POW - Prigionieri di guerra


POW è la sigla, acronimo dell'inglese prisoner of war, con la quale viene indicato un prigioniero di guerra in contesto anglosassone. In generale, con l'espressione prigionieri di guerra si intendono i militari catturati dal nemico in tempo di guerra e, dall'inizio del Novecento, protetti da una normativa internazionale apposita per tutta la durata della prigionia.

Come stabilito nella Convenzione di Ginevra del 1929, il prigioniero conserva la sua personalità civile; la sua identità deve essere comunicata alle autorità del campo di prigionia; può inviare una cartolina speciale (capture card) alla propria famiglia e all'agenzia centrale dei prigionieri di guerra della Croce Rossa Internazionale, che ha il compito di verificare le condizioni dei campi di prigionia e l'osservanza della convenzione.
Alla fine del conflitto i prigionieri devono essere immediatamente rilasciati e messi in condizione di tornare ai loro paesi.
La Seconda Guerra Mondiale, con l'esperienza della Resistenza, ha posto il problema della necessità di estendere il concetto di belligerante e questo ha condotto alla revisione della Convenzione nel 1949 con il riconoscimetno di tale status anche alle formazioni di civili impegnate nelle guerre di liberazione o nelle situazioni di guerra civile.
Sebbene la Convenzione di Ginevra del 1929 fosse accettata a livello internazionale, nel corso della Seconda Guerra Mondiale il trattamento dei prigionieri variò da nazione a nazione, addirittura violando in alcuni casi gli articoli stessi del documento.
Per quanto riguarda nello specifico la prigionia di guerra dei militari italiani durante il secondo conflitto mondiale, essa presentò una particolarità determinata dalle vicende dell'Italia negli anni di guerra: il passaggio dal campo nazifascista a quello delle democrazie occidentali attuato con l'Armistizio dell'8 settembre 1943, da un lato, mise gli Stati che detenevano militari italiani nella condizione di chiedere loro una scelta politica tra i campi contrapposti; dall'altro, determinò il fenomeno della massiccia deportazione in Germania dei soldati del Regio Esercito (meglio noti come IMI - Internati Militari Italiani).
In definitiva, nella Seconda Guerra Mondiale si verificarono tre distinte e diverse prigionie di militari italiani, che a loro volta determinarono altrettante differenti memorie:
1. soldati italiani prigionieri dei Russi, 40/50.000 uomini;
2. soldati italiani prigionieri degli Anglo-americani (o Francesi), poco meno di 600.000 uomini;
3. soldati italiani prigionieri dei Tedeschi, circa 650.000 uomini.
La prima e la terza presentano vicende relativamente omogenee e sono conosciute nelle grandi linee: durissimi trasferimenti a piedi o in treno, epidemie scoppiate all'arrivo nei campi di prigionia, condizioni di vita inaccettabili, giornate di lavori forzati interminabili; la seconda invece si articola in una straordinaria varietà di teatri e condizioni poco noti, che solo di recente stanno lentamente venendo alla luce.
Dei circa 600.000 militari italiani catturati dagli Alleati, 400.000 furono detenuti dagli Inglesi, 125.000 dagli Statunitensi e 41.000 dai Francesi. Le caratteristiche più evidenti di questa prigionia furono la durata, le grandi distanze dei trasferimenti e soprattutto la dispersione. Gli italiani catturati subirono una prigionia da 3 a 6 anni, visto che i rimpatri terminarono nei primi mesi del 1947, e furono distribuiti letteralmente in tutti i continenti, con forti contingenti in Medio Oriente, Egitto, Nordafrica francese, Kenya, Sudafrica, India, Australia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia, ma con gruppi minori anche in molti altri paesi. Destinazioni e trasferimenti furono dettati prima da ragioni di sicurezza (Kenya, India, Sudafrica), poi dalla convenienza di utilizzare una manodopera preziosa (trasporti verso la Gran Bretagna e gli Stati Uniti). I grandi campi con migliaia di prigionieri vennero generalmente sostituiti dal decentramento in campi più piccoli, secondo le possibilità di lavoro, anche in condizioni di semilibertà.

Probabilmente la mancanza di dimensioni collettive drammatiche è stata una delle cause della debolezza della memoria di questa prigionia, tanto più che non fu vissuta né percepita come disonorante. Nei campi degli Alleati i prigionieri avevano un trattamento corretto, secondo le convenzioni internazionali. Nelle prime settimane o nei primi mesi dopo la cattura le condizioni dei campi furono spesso insufficienti e il vitto scadente; ma poi a tutti i prigionieri furono assicurate sistemazioni adeguate, vitto decente se non addirittura buono, possibilità di svaghi e di sport, condizioni di lavoro ragionevoli, in diversi paesi anche buoni rapporti con la popolazione. In queste condizioni ad essere insopportabile e logorante, in alcuni casi una vera sofferenza psico-fisica, era la prigionia stessa: le infinite limitazioni e il lento scorrere dei giorni senza futuro.
Altro aspetto importante della prigionia degli italiani in mano agli Alleati riguarda la scelta tra 'cooperazione' e 'non cooperazione' che gli anglo-americani chiesero ai prigionieri dopo l'Armistizio dell'8 settembre 1943, in tempi e modi molto diversi. Chi si dichiarava 'cooperatore' restava prigioniero, ma poteva fruire di condizioni di lavoro migliori, fino a forme di semilibertà. Chi, invece, si dichiarava 'non cooperatore' non riceveva un trattamento punitivo, né subiva particolari pressioni. In alcuni casi, questi ultimi, etichettati come fascisti, venivano concentrati in un sottocampo separato, dove comunque continuavano ad avere lo stesso trattamento degli altri prigionieri. Tuttavia, l'aspetto più interessante è che solo una parte di questi 'non cooperatori' era davvero fascista, la maggioranza rifiutava la cooperazione per una difesa della propria identità di militari prigionieri.

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